Nascita, vita e morte di un pallone

Dopo tanta aria, un rumore sordo, roccioso. La valvola era stata inserita correttamente; fu immessa la quantità necessaria di aria – di vita – e il tocco sapiente del braccio meccanico decise quando la misura fu adatta. Sapete, quello della valvola è il momento più difficile: è il punto preciso della mia circonferenza che mi rende perfetto così come sono, ma è anche la mia più grande debolezza: un gesto inconsulto, un calcio maldestro, un rimbalzo imprevisto, avrebbero potuto rigettare quella valvola nel mio stomaco, impedendomi per sempre di respirare.
Il risultato fu ottimale. Un bambino mi prese con sé, e sembrò immediatamente entusiasta dell’affare. Verificava costantemente la risposta del mio coefficiente di urto elastico, su qualsiasi superficie, a qualsiasi ora, in qualsiasi modo.
Capimmo ben presto che il meglio di me si tirava fuori solo quando, scalciato di passo in passo, rotolavo lungo il marciapiede. Divenni tutt’uno con la suola delle sue scarpe, e il rumore sordo di ogni rimbalzo mi ricordava sempre l’esatto momento in cui cominciai a ricordare per la prima volta.
Mi piaceva. Piaceva a me e piaceva al bambino.
Un giorno mi presentò ai suoi simili, alcuni più altri meno capaci di maneggiarmi con gli stessi gesti, con le stesse suole. Giocavamo per strada, via Ruggero VII, un chiodo conficcato in quella parete che è Palermo, a sostenere un quadro che non sta mai parallelo al pavimento.
Quel giorno, il rumore del mio rimbalzo come al solito si disperdeva nel caos del vociare incessante della gente, dei clacson stuprati da automobilisti repressi, del campanaccio di fine pausa pranzo degli operai richiamati dal capomastro.
Sentii un colpo violento sul ventre, un colpo sprezzante, e volai per diversi metri prima di ricompormi nella stasi. Non ero più sullo stesso pavimento frastagliato di balate di prima ma, tutto sporco di petali e terra, pare che avessi incrociato un vaso di gerani.
Me ne resi conto perché la vecchia si occupò di me solo dopo aver raccolto la terra che avevo disseminato per il balcone, e dopo aver piantato nuovamente i fiori che avevo divelto.
Mi afferrò con rabbia, quasi a volermi ferire con quelle unghie cromate e taglienti. Agitò compulsivamente la mia circonferenza sporgendola dal balcone, come un trofeo di guerra.
Il bambino, dal basso della strada, mi guardava impaurito. Gridò qualcosa lei, ci provò anche lui, ma il singhiozzo tranciava ripetutamente ogni tentativo di emettere un fiato, che si imponesse sul caos, in via Ruggero VII.
La megera raccolse le forbici, che tanto teneramente avevano ridato vita ai suoi gerani spezzati, e mi fissò crudelmente, gli occhi iniettati di sangue. Quello sguardo trafisse il bambino. Le forbici trafissero me.